Magistrati liberi di fare interviste. Mentre Nunzia Schilirò deve tacere

Esistono cose lecite che però non sono comunque un bello spettacolo. Tra queste, l’abitudine di certi magistrati di rilasciare interviste sulle inchieste di cui si occupano. Un andazzo che va peggiorando, e che forse merita una reazione più ponderata rispetto al voltarsi dall’altra parte e cambiare discorso con un filo d’imbarazzo. Mettiamo in fila solo gli ultimi episodi. Sulle indagini relative a Luca Morisi il procuratore di Verona dice al Corriere della Sera che non accetta «illazioni» sul loro lavoro. Sulla condanna di Mimmo Lucano (ancora in attesa di motivazioni) il pubblico ministero dice a La Repubblica che vive un «conflitto interiore», e che ha lavorato in una comunità missionaria in Mozambico. Nello stesso momento, il procuratore di Locri rilascia un’intervista a La Stampa dove paragona Lucano a un bandito di un film western.

D’accordo: la giustizia italiana, soprattutto di questi tempi, ha mostrato di peggio. E sui tribunali nostrani la parola «riservatezza» non è esattamente appesa all’ingresso. E però, al di là dei contenuti delle interviste di cui sopra, resta il fatto che questo profluvio di dichiarazioni a mezzo stampa non ci pare un panorama edificante, soprattutto se proviamo a metterci nei panni delle persone coinvolte nelle inchieste. Una delle tante meraviglie di questo Paese è il fatto di considerare assolutamente normale la prolissità comunicativa di alcuni membri del potere giudiziario, compreso il segretario di Md che invita i colleghi a sintonizzarsi con la «ribellione» dell’opinione pubblico sul caso Lucano. E compresi quelli tuttora in servizio, con pieni poteri, magari alle prese con indagini appena avviate.

Tutto questo è piuttosto curioso, se pensiamo che persino gli arbitri di calcio sono tenuti, per statuto professionale, a rispettare la consegna del silenzio stampa sulle decisioni prese in campo: i magistrati no. Come se un cartellino giallo valesse più di una sentenza in tribunale. Come se un fuorigioco fosse più importante di un qualsiasi processo che non sia quello di Biscardi. Eppure, cosa pensereste di un arbitro che, dopo aver fischiato un rigore, si collegasse nell’intervallo con lo studio di Bruno Vespa o di Mario Giordano per difendere la sua scelta? Come minimo la partita finirebbe seduta stante, perché nessuno avrebbe più fiducia nel direttore di gara. Ma evidentemente quello che vale negli stadi non vale nei tribunali, dove pure la giustizia è nel pallone da tempo. Parafrasando Winston Churchill, in Italia si celebrano le partite di calcio come fossero processi. E viceversa.

Questo non toglie, come dicevamo, che questi comportamenti siano assolutamente leciti. Qui nessuno chiede le dimissioni di nessuno. Ogni toga, di qualsiasi colore, ha pieno diritto di dire ciò che gli pare, magari con le sue sacrosante ragioni, nel rispetto delle leggi e di quel che rimane della deontologia. C’è il libero pensiero, c’è l’articolo 21 della Costituzione, siamo tutti d’accordo. Ma a questo punto qualcuno dovrebbe spiegarci perché la libertà di pensiero che vale per i magistrati non debba valere anche per il vicequestore Nunzia Schilirò. Ricordate? Per aver criticato il green pass nella pubblica piazza, la poliziotta «ribelle» è finita sulla graticola mediatica, impallinata da sanzione disciplinare, con tanto di lavata di capo del ministro Luciana Lamorgese. Si parlò di «pugno duro», con buona pace delle femministe alla Murgia. Si disse che gli uomini dello Stato non potevano esercitare diritto di critica senza dimettersi. Ebbene, i magistrati sono in massimo grado uomini dello Stato (ben più importanti di un vicequestore), eppure parlano, criticano, opinioneggiano a spron battuto pur restando al loro posto. E a concedere loro tribuna sono quegli stessi giornali che alla poliziotta l’hanno negata. Con una differenza: lei perlomeno si era tolta la divisa prima di parlare, mentre i pm intervistati continuano ad indossare la toga. Capite il cortocircuito?

Dunque, come si giustifica una tale disparità di trattamento? Il mistero, per ora, resta senza risposta. A meno che qualcuno non voglia farci credere che sia un problema di contenuti politici, e che le leggi anti Covid sono intoccabili come i fili dell’alta tensione, e che il green pass è più forte di tutto: del diritto di parola, della libertà di pensiero, della vita stessa. E soprattutto, del buon senso perduto.

di Federico Novella – La Verità

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