Da metà ottobre saremo ufficialmente nel Draghistan-Bananistan
Il paradigma della truffa antidemocratica è oramai evidente in una Repubblica delle banane sempre più turgide, ma solo in apparenza
E lo dicemmo con largo anticipo che Italia e Bananas di Woody Allen sono ormai arrivati al sincronismo perfetto. Mirabile la scena del film, scolpita nel bronzo italiota seppure centrata su Castro a Cuba, del neodittatore guerrigliero fino ad un minuto prima idealista che al primo comizio da nuovo duce annuncia che d’ora in poi la lingua ufficiale del Bananas sarà lo svedese e che tutti i cittadini dovranno cambiare la biancheria ogni trenta minuti portandola sopra i pantaloni, per poter controllare.
Orbene pensavamo tutti di vivere, in Italia, in una democrazia malata, corrotta e crassamente inefficiente, però ancora adusa ad una farsa tranquillizzante che in qualche maniera salvasse le apparenze, e quindi anche un certo agio pseudodemocratizzante. Olé! Macché farsa, manco quella più. E mo è finita la pacchia cari lassisti, disfattisti e cerchiobottisti! Da metà ottobre mica si scherza più con sti giochini: saremo ufficialmente nel Draghistan-Bananistan, soggetti agli editti a colpi di manganello economico senza opposizione veruna, per mano di un paludato quanto lugubre Ceaucescu in salsa Francoforte (a breve su questi tipi un ritratto sulla di lui palese natura rettiliana e/o topogigiesca, con tanto di svelamento del doppiatore-ventriloquo).
Lontani ormai i tempi di una nazione in tumulto, perciò ancora vitale, lontani i tempi anche solo prodromici al collasso della immatura ma espansiva società liberale dell’era giolittiana. Lontani i tempi del “boia labbrone le cui calcagna di fuggiasco sanno le vie di Berlino” (D’Annunzio su Giolitti) in cui la sonnacchiosa nazione post-umbertina del delitto Murri (dove le torbide passioni dei figli di un luminare della Medicina scuotevano i sonni delle sartine e dei benpensanti) era percorsa da contrapposti movimenti socialisti, liberali, veteromonarchici, cattolici, nazionalisti o anarchici. Macché, finito tutto.
La società italiana del 2021 non va oltre lo iconico motto propalato dall’aedo simbolo del degrado anche pre-Coviddi: quel “coca e mignotte tutta la notte” esalato dal poco rassicurante fiato di Diprè Andrea, pornomane sovrappeso e con lisergiche grandi aspettative dickensiane di essere un Bonito Oliva o uno Sgarbi (sempre parimenti desnudi). Eccola qua, la società italiana affogata nella melassa della ipnosi pre e post coviddara; la società dei social media manager, leghisti o meno, che spendono in puttani (manco più in mignotte femmine, un po’ demodé al momento) e in “droghe dello stupro” liquide e incolori (manco più in eroina brown sugar; pure i colori si sono dissolti nel nuovo mondo virtual insanity, per citare Jamiroquai).
A che serve un dibattito sociale e politico quando una intera nazione, per giunta già anziana, pigra e ipocondriaca, la hai terrorizzata con le tecniche ree confesse di Hermann Goering? Ma non serve a niente. Qui nel Draghistan la opposizione, se un tempo si spartiva la torta con la controparte ma almeno litigava sulle fette, ha persino smesso il bisticcio fasullamente stentoreo per appecoronarsi in coda al distributore unico draghistano.
Come dicevano gli afrikaaner boeri nel Sudafrica dell’Apartheid: una nazione bianca per gente bianca! E il Draghistan è una nazione bianca come la pagina vuota di pensiero, per gente bianca di paura.
In Draghistan governa un uomo solo, con sotto un partito unico, che dalla metà di ottobre toglierà gli stipendi a chi si oppone ai suoi editti, col plauso di una maggioranza di imbelli, che forse dopo l’ottobre (non rosso) non sarà poi tanto coesa come maggioranza, ma la vedremo.
E se la pantomima di regime sul governo nazionale ancora tenta blandamente di simulare la burattinata di una finta opposizione incarnata da un partito non governativo, ex fascista, guidato da tale G. Meloni, ex ministro fantoccio di Berluskaiser (definizione di un Umberto Bossi prima dell’ictus), che però poi alle elezioni si presenta con i partiti di ultragoverno, la pagliacciata sfugge definitivamente di mano sulle elezioni dei sindaci, a Roma come a Milano, dove ormai neanche ci si dà più la pena di inscenare almeno la competizione tra cosche della stessa mafia.
A Milano la rappresentazione teatrale deborda nel Dada puro. Un sindaco di centrosinistra (senza più manco la memoria di un remoto concetto di sinistra) talmente oltre la macchietta del radical-chic da non essere nemmeno bastevole materiale per un personaggino di Crozza. Uno sfidante di centrodestra (senza più manco la memoria di non essere alleato del centrosinistra) talmente improbabile che manco gli danno i soldi per stampare i santini, figuriamoci una turbocampagna social targata Steve Bannon, ma che dico Steve Bannon, Sean Spicer, ma che dico Sean Spicer, Luca Morisi (ops, sbagliato esempio).
Sì, certo, ormai anche i bangla che deliverano pizze (sì, usiamo il verbo anglicano pour cause) hanno capito che la torta delle città se la sono spartita prima, e che mettere candidature vere alle opposizioni non si può più fare, almeno finché non si elimineranno perfino le urne di cartone e le schede elettorali cartacee (ma tranquilli, non siamo magari lontani: quasi tutti i soldi dei recovery plan vanno in digitalizzazione mica a caso).
Eh sì, il rischio che le elezioni non riescano come da pilotaggio, se metti candidati minimamente in grado di competere, sussiste ancora. Gaudeamus igitur, iuvenes dum sumus. C’è ancora tempo per vedere il peggio della morte definitiva dei sistemi democratici.
In compenso a Milano però abbiamo dei mirabolanti local hero, vere superstar del dadaismo politico, in giunta e in opposizione. Abbiamo i Maran la cui fortuna politica nacque dalla lotta contro la deforestazione urbana diventato leader del partito del cemento e delle fioriere da balcone buttate agli angoli di piazzette variopittate sull’asfalto. Rifare veri arredi urbani piantando veri alberi in città mica si può, troppo sbatti: mettiamo i vasi di plastica con gli alberini spompi, dai!
Abbiamo i Granelli con le piste ciclabili, sacrosante, ma realizzate in modo da essere le più demenziali, cialtrone e pericolose del mondo, ovviamente incomplete e mica solo nel capolavoro di onanismo suicida di corso Buenos Aires: troppo sbatti farle ben fatte, facciamole a cazzo di cane, dai!
Abbiamo presidenti di municipi di zona come Antola, sorta anche lei con le migliori intenzioni, non solo non minimamente grado di fornire bidoni e cestini della spazzatura (chissà perché Palazzo Marino proprio non li vuole, meglio buttare le cartacce in terra, eppure un tempo c’erano, come in ogni città europea) per una zona ormai immondezzata da vagonate di ragazzini festanti che giustamente se non trovano bidoni e cestini a sufficienza le bottiglie di birra e i bicchieri di plastica li mollan per strada, meglio se rotti, ma non basta: interpellata più volte da giornalisti e privati cittadini costei non risponde per mesi a semplici domande, in sprezzo non solo della immagine, ma pure della pubblica funzione.
Poi sul finto versante opposto abbiamo perfino i big della casta nazionale, tra l’altro pure milanesi, che manco più ci mettono la faccia: i Salvini, i Berlusconi, i La Russa, siculo-milanese DOCG (eh sì, la Meloni non ha molte vecchie glorie lombarde, se escludiamo forse gli Jonghi Lavarini, ma ops, forse anche qui abbiamo sbagliato esempio). Bruciati i golden boys degli anni novanta: i Massari, i Pennisi, anche i Gallera, impallinato in pieno Covidddi; il fior fiore della ex Gioventù del vecchio PLI, il partito liberale italiano di quando la Repubblica c’era ancora. Per non parlare del fior fiore, se così lo volessimo chiamare con personale affezione, del vecchio PRI, il partito repubblicano italiano, più eclettico ma non meno politicamente sotto endemico lsd: i Giannino, i De Nicola, gli Arditti. La ossatura della sedicente intellighenzia politica milanese, che nonostante la formazione di qualità non solo non seppe costruire, ma seppe dilapidare un intero patrimonio politico.
Sì, certo, esponenti di vecchi partiti non certo favoriti dalle circostanze né dai buoni esempi dal vertice, d’accordo. Tempi ingannevoli per tutti e dominati da tirannosauri in cristallerie. Après nous le déluge, purtroppo: quelli che verranno dopo saranno peggiori; più ignoranti, più impreparati, più incapaci. Sicuramente anche vestiti peggio, che esser più sciatti per le generazioni future sarà sinonimo di esser più agili. Ma soprattutto ignari dei basics di un sistema democratico fallito sotto la finta dittatura bananesca del Berlusca, defunto sotto l’abbraccio mortale prima del Conte solo di nome, poi del conte Draghula in persona.
Eppure si muove, come avrebbe detto il Galilei, ancora qualcosa, forse non solo a Milano, ma a partire da Milano. Abbiamo personalmente incontrato persone più e meno famose, con le quali si può concordar politicamente o meno, che magari militano anche in formazioni asservite a Mario Vlad Draghul, l’impalatore di stipendi, ma che ancora forse forse un pochinino ci credono, in un minimo di servizio pubblico.
Gianluigi Paragone, ribelle che forse non ha azzeccato il brand Italexit, ma che prova con buona dose di coraggio a scompigliare il mazzo truccato. Gianmarco Senna, leghista raziocinante che forse non sfigurerebbe in un paese meno operettistico. Filippo Andrea Rossi, piddino che forse ci crede un po’ ancora, in quella roba là che fu il PD. Cristiana Zerosi, radicale che nonostante il sale sparso dagli stessi seguaci del fu Pannella (e da Pannella stesso) sulle rovine dei valori democratici e liberali di un partito che fu importante per la Repubblica, ancora mette il suo tempo a disposizione per raccogliere le firme sulla Eutanasia legale.
Il bilancio di queste elezioni non sarà la vittoria di questo o quello: sarà la sostanziale inutilità di queste elezioni, a meno che non si verifichi un primo segnale di scucitura del nero mantello di Draghula. Poi cosa succederà? Non lo sappiamo, naturalmente. Probabilmente la situazione andrà a finire a puttane, e a salvarci sarà, oltre all’onnipresente cinismo, appunto anche qualche sana scopata, sempre che ce la facciano ancora fare.
In fondo “Il dittatore dello stato libero di Bananas” finisce con una nota positiva: almeno Fielding Mellish/Woody Allen si porta a letto Nancy, la attivista per i diritti civili in Sudamerica, conosciuta mentre lei raccoglie le firme per una petizione. Hai visto mai che anche a sto giro l’attivismo politico di qualche giovanotta salvi il mondo. Non ci crediamo proprio, ma alla fine sai che c’è, sarebbe bello sperarlo.
di Lapo Mazza Fontana – Il Giornale d’Italia