AttualitàCronacaEconomiaIn evidenzaMondoPiù lettiPoliticaSondaggioTop NewsUltime News

L’UOMO DI STRADA SCRIVE A GIORGIA MELONI

di Ruggiero Capone

Dobbiamo tutti riconoscere che questo governo è salito al potere democraticamente. E’ stato scelto dai cittadini, che hanno votato questa maggioranza perché stanchi di tecnici e professori che, da almeno un decennio, sostengono che per raddrizzare gli italiani necessiterebbe bruciare loro risparmi e casa, disoccuparli ed abolire pensioni e sanità pubblica. Certamente l’astensione dal voto è stata alta, ed incarnata da coloro che dicono “tanto non cambierà mai nulla, e chiunque vada a governare prenderà sempre ordini dalle solite élite planetarie”. Chi ha votato Giorgia Meloni lo ha fatto sperando in un cambio di rotta per l’Italia, e non certo augurandosi un governo che potesse mettere insieme i propositi dei due Supermario, Draghi e Monti. Soprattutto l’elettorato italiano non è né di destra né di sinistra, è italiano e basta: ovvero vorrebbe che a governare ci stia chi non gli complichi la vita con obblighi burocratici europei e con mille rompicapo ogni volta che necessita pagare una cartella esattoriale, e che garantisca si possa mantenere la miglior sanità pubblica, che non venga messo a rischio il risparmio, che non venga messa in discussione la casa e la proprietà di terreni e laboratori costruiti con generazioni di lavoro familiare e sacrifici. Giorgia Meloni è partita bene nei propositi, soprattutto lasciando credere all’elettorato che avrebbe fatto nuovamente sventolare il primato dell’industria e del lavoro italiano: un primato che Enrico Mattei politico cattolico aveva intuito alla base della grande ricetta economica del Fascismo. Il boom economico italiano è stato possibile (ed invidiato planetariamente) perché c’erano politici arci-italiani, che difendevano il primato del nostro lavoro con la stessa audacia dei condottieri rinascimentali e convinzione che portava Amintore Fanfani a sbattere i pugni sui tavoli europei per difendere le prerogative dell’economia agraria italiana: le riforme di quella Diccì fanfaniana erano la sintesi dei programmi di Camillo Benso Conte di Cavour (che istituiva la bonifica) e di Arrigo Serpieri (accademico d’economia agraria). Quest’ultimo era stato sottosegretario all’Agricoltura nel Ventennio, e Fanfani volle far tesoro dei suoi studi per contrastare le politiche agricole del MEC (Mercato comune europeo) che già negli anni a cavallo tra ’50 e ’60 promettevano la disarticolazione del comparto primario italiano. Lungi dallo scrivente tediare il lettore, e non è il caso d’elencare gli esempi d’identità italiana nel lavoro e nella coesione sociale: ma questi due aspetti sono stati la chiave del successo delle migliori esperienze governative. Gli italiani chiedono al Governo lavoro e coesione sociale: perché senza questi due ingredienti c’è solo inquietudine ed insicurezza. Il lavoro si garantisce non solo con le assunzioni, ma non permettendo che l’insana interpretazione delle norme Ue metta fuori legge le attività tradizionali italiane in campo agricolo, meccanico, tessile ed artistico. Perché un computer od un robot si possono produrre in qualsivoglia parte del Pianeta, ma l’agricoltura e la creatività artigianale italiana rimarranno il vero primato di quel popolo che dalle Alpi al Mediterraneo ha insegnato al mondo la cultura del lavoro: quelle arti e mestieri borghesi sopravvissuti alla caduta di Roma, poi alla base della vita comunale, della democrazia Serenissima, delle Repubbliche Marinare di Genova ed Amalfi, della Corte Estense come della Signoria Fiorentina e del Regno di Napoli. Il nostro lavoro invidiato dai principi germanici, che ieri comminavano come punizione il sacco dell’opulenta Mantova ed oggi reputano giusto usare le norme europee per soffocare il primato dell’industria italiana. Forse inconsapevolmente la gente ha votato Fratelli d’Italia riponendo le stesse speranze che Alessandro Manzoni racconta ne “Il Conte di Carmagnola”: lo scrittore alludeva al condottiero Braccio da Montone, invocato da Bologna e Capua e da Foggia a Napoli perché capace di difendere ed unire l’Italia dei tanti borghi e mestieri. Perché di questo è fatta la cultura italiana, ecco perché condivido il monito dello scrittore Adalberto Baldoni all’indomani dello stravagante coup de théàtre di Morgan e Sgarbi al Maxxi. Alla base della nostra cultura c’è la civiltà del lavoro, non certo le esternazioni scurrili di pseudointellettuali lautamente pagati per fingersi al Maxxi emuli dell’Orbo Veggente: loro poi, che del Poeta d’Italia non possono vantare nemmeno un briciolo di geniale esperienza né lavorativa né patriottica. Perché D’Annunzio non aveva certo bisogno di presidenze di fondazioni per fare cultura, la sua genialità era nella sue opere e nella narrazione della propria esistenza… non faceva pubblico vanto di virilità, ma viveva da vero uomo del proprio tempo. Quindi cara Giorgia Meloni la cultura italiana è nel lavoro e nella coesione sociale, la cultura borghese nata nell’età comunale: lo scrivente è convinto che possa sempre arriderle il consenso, ma è necessario lei mantenga la barra dritta sulla difesa dell’identità lavorativa italiana e sul primato dell’impresa. Poi, per quanto riguarda l’egemonia culturale, non è certo con un salotto ristretto e chiuso (troppo gratificato) che potrà scardinare i pilastri delle casematte gramsciane nell’editoria come nel cinema e nell’arte più in generale. L’Italia che sta governando è una nazione umiliata ed allo sbando, soprattutto s’aspetta piccoli segnali di speranza, di perdono, di pace sociale.