Mario Giordano: «Hanno rovinato una generazione, lo certifica il presidente del Tribunale minorenni di Milano»

Di Mario Giordano – I dati sull’aumento della violenza tra i minori a causa di lockdown e dad sono inquietanti. Eppure, coi titolari di Salute e Istruzione tuttora in carica e senza piani per il rientro a scuola, si va verso la replica del disastro.

Effetto lockdown. Stiamo perdendo una generazione. O forse l’abbiamo già perduta. I ragazzini pagano in modo
devastante i due anni e mezzo di pandemia: l’isolamento, le restrizioni, la realtà virtuale che sostituisce quella reale, il disagio psicologico, la caduta di relazioni, la didattica a distanza, la chiusura delle attività sportive, la dispersione scolastica, la depressione, l’ansia, l’angoscia, il vuoto e la paura del futuro. Tutti fenomeni immaginabili. Ma che ora vengono certificati dal parere autorevole del presidente del Tribunale dei minorenni di Milano, Maria Carla Gatto, che dal suo punto di osservazione privilegiato snocciola dati impressionanti: i maltrattamenti compiuti da ragazzini nei confronti dei familiari sono aumentati, in questo periodo, del 41%; nel frattempo sono cresciuti anche i reati commessi fuori casa (rapine, lesioni, percosse, etc); l’età media si è drammaticamente abbassata al di sotto dei 15 anni; e si sono moltiplicati i fenomeni di depressione giovanile, disturbi alimentari e autolesionismo. Solo negli ultimi tempi, a Milano, si sono registrati sette tentativi di suicidio di ragazzine di 14-15 anni. Sette.

Ripeto: non era difficile accorgersene. Ce la poteva fare anche il ministro Roberto Speranza se avesse alzato gli occhi dalle sue circolari per cercare di capire ciò che accadeva non più ai margini ma nel cuore delle città, e anche nel cuore di quella provincia che una volta è sempre stata considerata un’isola felice. Quello che troppo rapidamente è stato classificato come «fenomeno baby gang» era invece una situazione di violenza dilagante e ormai completamente fuori controllo, uno straziante e brutale urlo di disperazione, l’esplosione di una bomba sociale covata per due e mezzi sotto la cappa dell’emergenza Covid. Infatti la dottoressa Gatto, magistrato di lunga esperienza nel settore (è presidente del Tribunale dei minori di Milano dal 2017, prima lo era stata per otto anni a Brescia), mette direttamente in relazione i dati choccanti snocciolati al Corriere della Sera con il lockdown. «Durante la pandemia», dice, «non è stata prestata sufficiente attenzione alla modifica dei ritmi e delle abitudini dei bambini e degli adolescenti. Nessuno si è preoccupato di loro. Un’intera generazione è stata lasciata in balia del vuoto e dell’angoscia».

Un’intera generazione in balia del vuoto e dell’angoscia: fa paura no? Ci si continua a riempire la bocca del futuro dei giovani, del pianeta da salvare per i giovani, delle riforme da fare pensando ai giovani. E poi, negli ultimi anni, i giovani sono stati abbandonati nel nulla, davanti allo schermo di un computer, senza preoccuparsi degli effetti che isolamento e riduzione delle relazioni sociali potevano avere sulla loro mente. E sul loro sviluppo. Sia chiaro: da queste parti non si cadrà mai nel «poverinismo» e nella giustificazione sociologica dei comportamenti devianti.

Chi sbaglia paga. Se un ragazzino mena la nonna o un passante, se ruba in casa o in farmacia, deve essere perseguito e punito, magari con più severità di quanto si è fatto finora. Però di fronte al dilagare dei reati commessi da minorenni, davanti a una generazione dimenticata e perduta, forse bisogna farsi qualche domanda in più. E mentre pensiamo a come intervenire sui ragazzini che sbagliano nei confronti dei grandi forse è il caso di pensare anche a come intervenire sui grandi che sbagliano nei confronti dei ragazzini.

A cominciare naturalmente dal ministro Speranza che è stato il principale responsabile delle chiusure e delle restrizioni che hanno devastato un’intera generazione. Farà autocritica? Chiederà scusa? E non penserà mica, nelle poche settimane di mandato che gli restano, di andare avanti sulla stessa strada? Di continuare a tenere ostaggio la scuola? Non è l’unico, però, a dover rendere conto delle scelte (suicide) fatte in questi due anni e di quelle che si dovranno fare nelle prossime settimane. Prendiamo per esempio il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi. La sua gestione della scuola è stata disastrosa. Ha sempre eluso ogni problema. Mai affrontato di petto una questione. Mai risolto un nodo. Infatti ci ritroviamo a un mese e mezzo dall’inizio della scuola, in piena campagna elettorale, con il problema del personale ancora aperto, come da tradizione; con l’eccesso di presidi reggenti e i concorsi non fatti; con le solite aule pollaio (lo ha ammesso lo stesso ministro il 27 giugno alla Cgil: «Abbiamo ancora il problema delle aule sovraffollate») e le poche riforme avviate che vacillano fra le polemiche, come è appena successo al decreto sulla dispersione scolastica, finanziato con i fondi Pnrr e contestato dallo stesso gruppo di lavoro (Marco Rossi Doria, Chiara Saraceno, etc) che ne aveva accompagnato l’elaborazione (fondi Pnrr già sprecati?).

Infine, come se non bastasse, ancora non esiste un protocollo sicurezza per il ritorno in classe: non penserà mica il ministro di ricominciare con distanziamento sociale e mascherine? Non penserà mica di accodarsi ancora una volta alle restrizioni in salsa di Speranza? Non penserà cioè di aggiungere ulteriori danni ai danni già provocati in questi due anni e mezzi di dad e lockdown?
«Sulla scuola non abbiamo fatto passi avanti», ha sentenziato proprio ieri al Fatto Quotidiano il professor Francesco Vaia, direttore dello Spallanzani. Ma perché non si sono fatti passi avanti? Eppure non sarebbe stato difficile. Per esempio, sarebbe bastato introdurre nelle scuole l’aerazione meccanica per evitare un bel po’ di quelle restrizioni così nefaste per i giovani. Il modello virtuoso delle Marche era lì, solo da imitare. Perché il ministro non l’ha fatto? Perché non ha seguito l’esempio? Perché ha scelto la strada deleteria della didattica a distanza, del distanziamento e delle assurde mascherine (in classe sì, al bar no)? Forse il ministro non sa dove sono le Marche? Possibile dal momento che in uno degli ultimi documenti del suo prestigioso dicastero è stato scritto che Piacenza è in Lombardia e che la regione Abruzzo si chiama in realtà Abbruzzo, perfetta conclusione di mandato per un ministro che aveva iniziato infilando una serie di strafalcioni, congiuntivo compreso: «Che sono ministro l’ho imparato ieri sera, speriamo che faremo bene», aveva detto subito dopo la nomina.

Ecco no, caro ministro: bene lei non potrà più fare, ormai, perché in realtà ha fatto troppo male. Veda solo se riesce, prima di settembre, a salvare il salvabile. Per quel poco che ne resta. Poi forse ci tornerà un po’ di speranza. Senza Speranza, ovviamente.
La Verità